Alla scoperta del deinfluencing, come ridurre l’acquisto compulsivo tra i più giovani

(Adnkronos) – Se il termine influencer identifica chi “influenza” gli utenti social e consiglia determinati acquisti, negli ultimi mesi settimane è sempre più frequente il fenomeno contrario: il deinfluencing. Gli obiettivi di questa nuova tendenza sono essenzialmente due, ridurre la sovraesposizione ai social media e contrastare l’iperconsumismo. Le ragioni che animano il deinfluencing sono chiaramente di tipo etico e puntano ad avere risultati anche nel campo ambientale.  La premessa obbligatoria è che gli influencer guadagnano promuovendo i brand. Più utenti acquistano dal link associato all’influencer (detto link referral), più aumenta il loro guadagno. Questo link consente un tracciamento preciso del numero di acquisti promossi e portati a termine da ciascun profilo. Per questo i social media sono pieni di contenuti pensati per spingere all’acquisto di beni di consumo, spesso nel campo della cosmesi o dell’abbigliamento, ma non solo. Nella maggior parte dei casi, il fine degli influencer non è tanto far acquistare agli utenti i beni di cui questi hanno già bisogno, quanto far nascere il desiderio di comprare altri beni.  Sono diverse le dinamiche utilizzate sui social per spingere ad acquistare beni superflui. In primis, l’utente che guarda il contenuto può avvertire il desiderio di sentirsi parte di un gruppo identificato dallo stile utilizzato e da determinate scelte di consumo. Poi, c’è “l’effetto dopamina”: quel senso di appagamento che prova il consumatore quando compra qualcosa di nuovo. La dopamina, che è un neurotrasmettitore, entra in gioco in ogni acquisto, anche quelli offline. Sui social questo è effetto è amplificato dal contesto in cui viene fruito il contenuto: all’appagamento dell’acquisto si aggiunge la bravura dell’influencer nell’orientare all’acquisto e il desiderio dell’utente/acquirente di ostentare i propri beni a una platea molto più ampia di quella offline. Lo stesso effetto viene generato dall’arrivo di nuove notifiche. Spesso gli utenti social si augurano di trovare nuovi “mi piace” ai propri post per provare quel senso di soddisfazione. Si tratta, tuttavia, di un appagamento effimero. Proprio questa caratteristica fa entrare l’utente in un circolo vizioso, che rischia di tenerlo con gli occhi sullo smartphone per ore alla ricerca di ripetute, ma brevi soddisfazioni. In definitiva, i social rappresentano l’ambiente ideale per stimolare l’acquisto di nuovi beni, non sempre realizzati da brand attenti al rispetto dell’ambiente.  Lo scopo del deinfluencing è spegnere l’istinto di shopping compulsivo, riducendo quindi i ritmi frenetici della produzione che provocano un carbon footprint elevatissimo, come spiega nonsoloambiente.it. Il fenomeno del deinfluencing ha dato forma all’iniziativa #NoNewClothes che ha l’obbiettivo di incentivare il riutilizzo dei capi d’abbigliamento. Nel tempo l’hashtag è diventato una challenge atipica: gli utenti mostrano sé stessi mentre acquistano prodotti di seconda mano o prodotti da aziende virtuoso che producono i propri capi in maniera sostenibile. A questa iniziativa partecipano anche alcuni piccoli produttori e associazioni attive nel campo ESG. Il fenomeno del deinfluencing non è ancora decollato, perché contrastato dall’attività dell’influencing, di gran lunga dominante sui social, ma potrebbe diventare un punto di riferimento in un mondo sempre più attento alla sostenibilità.
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