“Ci sono più avvocati che idraulici”, sos crollo artigiani in Italia
(Adnkronos) – Continua a scendere il numero complessivo degli artigiani presenti nel nostro Paese. Stiamo parlando di persone che in qualità di titolari, soci o collaboratori familiari svolgono un’attività lavorativa prevalentemente manuale. Pertanto, per poter contare sulla copertura previdenziale devono iscriversi nella gestione artigiani dell’Inps. Se nel 2012 erano poco meno di 1.867.000 unità, nel 2023 la platea complessiva è crollata di quasi 410mila soggetti (-73mila solo nell’ultimo anno); ora il numero totale sfiora quota 1.457.000. In questi undici anni abbiamo assistito a una caduta verticale che si è interrotta solo nell’anno post Covid (+2.325 tra il 2021 e il 2020). Se questa tendenza non sarà invertita stabilmente, non è da escludere che entro una decina d’anni sarà molto difficile trovare un idraulico, un fabbro, un elettricista o un serramentista in grado di eseguire un intervento di riparazione/manutenzione presso la nostra abitazione o nel luogo dove lavoriamo. L’SOS è lanciato dall’Ufficio studi della Cgia che ha elaborato i dati dell’Inps e di Infocamere/Movimprese. Secondo i dati Infocamere/Movimprese, anche il numero delle aziende artigiane attive è in forte diminuzione. Se nel 2008 (anno in cui si è toccato il picco massimo di questo inizio di secolo), in Italia le imprese artigiane erano pari a 1.486.559 unità, successivamente sono scese costantemente e nel 2023 si sono fermate a quota 1.258.079. Va comunque segnalato che questa riduzione in parte è anche riconducibile al processo di aggregazione/acquisizione che ha interessato alcuni settori dopo le grandi crisi 2008/2009, 2012/2013 e 2020/2021. Purtroppo, questa “spinta” verso l’unione aziendale ha compresso la platea degli artigiani, ma ha contribuito positivamente ad aumentare la dimensione media delle imprese, spingendo all’insù anche la produttività di molti comparti; in particolare, del trasporto merci, del metalmeccanico, degli installatori impianti e della moda. Negli ultimi decenni tante professioni ad alta intensità manuale hanno subito una svalutazione culturale che ha allontanato molti ragazzi dal mondo dell’artigianato. Il tratto del profondo cambiamento avvenuto, ad esempio, è riscontrabile dal risultato che emerge dalla comparazione tra il numero di avvocati e di idraulici presenti nel nostro Paese: se i primi sfiorano le 237mila unità, si stima che i secondi siano “solo” 180mila. E’ evidente che la fuga dei cervelli in atto nel nostro Paese e, per contro, la mancanza di tante figure professionali di natura tecnica sono imputabili a tante criticità. A nostro avviso le principali sono: lo scarso interesse che molti giovani hanno nei confronti del lavoro manuale; la mancata programmazione formativa verificatasi in tante regioni del nostro Paese e l’incapacità di migliorare/elevare la qualità dell’orientamento scolastico che, purtroppo, è rimasto ancorato a vecchie logiche novecentesche di gentiliana memoria. La contrazione degli artigiani e delle loro attività si possono notare anche a occhio nudo. Girando per le nostre città e i paesi di provincia sono ormai in via di estinzione tantissime botteghe artigianali. Insomma, non solo diminuisce il numero degli artigiani e le aziende di questo settore, ma anche il paesaggio urbano sta cambiando volto. Sono ormai ridotte al lumicino le attività storiche che ospitano calzolai, corniciai, fabbri, falegnami, fotografi, lavasecco, orologiai, pellettieri, riparatori di elettrodomestici e Tv, sarti, tappezzieri, etc. Attività, nella stragrande maggioranza dei casi a conduzione familiare, che hanno contraddistinto la storia di molti quartieri, piazze e vie delle nostre città, diventando dei punti di riferimento per le persone che sono cresciute in questi luoghi.
Non tutti i settori artigiani hanno subito la crisi. Quelli del benessere e dell’informatica presentano dati in controtendenza. Nel primo, ad esempio, si continua a registrare un costante aumento degli acconciatori, degli estetisti e dei tatuatori. Nel secondo, invece, sono in decisa espansione i sistemisti, gli addetti al web marketing, i video maker e gli esperti in social media. Va altrettanto bene anche il comparto dell’alimentare, con risultati significativamente positivi per le gelaterie, le gastronomie, le pulitintolavanderie a gettone e le pizzerie per asporto ubicate, in particolare, nelle città ad alta vocazione turistica. Il degrado urbano si sta allargando a macchia d’olio; basta osservare con attenzione i quartieri di periferia e i centri storici per accorgersi che sono tantissime le insegne che sono state rimosse e altrettante sono le vetrine non più allestite, perennemente sporche e con le saracinesche abbassate. Sono un segnale inequivocabile del peggioramento della qualità della vita di molte realtà urbane. Le città, infatti, non sono costituite solo da piazze, monumenti, palazzi e nastri d’asfalto, ma, anche, da luoghi dove le persone si incontrano, anche per fare solo due chiacchere. Queste micro attività conservano l’identità di una comunità e sono uno straordinario presidio in grado di rafforzare la coesione sociale di un territorio.
Con meno botteghe e negozi di vicinato, diminuiscono i luoghi di socializzazione a dimensione d’uomo e tutto si ingrigisce, rendendo meno vivibili e più insicure le zone urbane che subiscono queste chiusure, penalizzando soprattutto gli anziani. Una platea sempre più numerosa della popolazione italiana che conta più di 10 milioni di over 70. Non disponendo spesso dell’auto e senza botteghe sottocasa, per molti di loro fare la spesa è diventato un grosso problema. L’invecchiamento progressivo della popolazione artigiana, provocato in particolar modo anche da un insufficiente ricambio generazionale, la feroce concorrenza esercitata dalla grande distribuzione e in questi ultimi anni anche dal commercio elettronico, il boom del costo degli affitti e delle tasse nazionali/locali hanno costretto molti artigiani a gettare la spugna. Una parte della “responsabilità”, comunque, è ascrivibile anche ai consumatori che in questi ultimi dieci anni hanno cambiato radicalmente il modo di fare gli acquisti, sposando la cultura dell’usa e getta, preferendo il prodotto fatto in serie e consegnato a domicilio. La calzatura, il vestito o il mobile fatto su misura sono ormai un vecchio ricordo; il prodotto realizzato a mano è stato scalzato dall’acquisto scelto sul catalogo on line o preso dallo scaffale di un grande magazzino.
Negli ultimi 40 anni c’è stata una svalutazione culturale spaventosa del lavoro manuale. L’artigianato è stato “dipinto” come un mondo residuale, destinato al declino e per riguadagnare il ruolo che gli compete ha bisogno di robusti investimenti nell’orientamento scolastico e nell’alternanza tra la scuola e il lavoro, rimettendo al centro del progetto formativo gli istituti professionali che in passato sono stati determinanti nel favorire lo sviluppo economico del Paese. Oggi, invece, sono percepiti dall’opinione pubblica come scuole di serie B. Per alcuni, infatti, rappresentano una soluzione per parcheggiare per qualche anno i ragazzi che non hanno una grande predisposizione allo studio. Per altri costituiscono l’ultima chance per consentire a quegli alunni che provengono da insuccessi scolastici, maturati nei licei o nelle scuole tecniche, di conseguire un diploma di scuola media superiore. E nonostante la crisi e i problemi generali che attanagliano l’artigianato, non sono pochi gli imprenditori di questo settore che da tempo segnalano la difficoltà a trovare personale disposto ad avvicinarsi a questo mondo. In tutto il Paese si fatica a reperire nel mercato del lavoro giovani disposti a fare gli autisti, gli autoriparatori, i sarti, i pasticceri, i fornai, i parrucchieri, le estetiste, gli idraulici, gli elettricisti, i manutentori delle caldaie, i tornitori, i fresatori, i verniciatori e i batti-lamiera. Senza contare che nel mondo dell’edilizia è sempre più difficile reperire carpentieri, posatori e lattonieri. Più in generale, comunque, l’artigiano di domani sarà colui che vincerà la sfida della tecnologia per rilanciare anche i “vecchi saperi”. Alla base di tutto, comunque, rimarrà il saper fare che è il vero motore della nostra eccellenza manifatturiera.
Tra il 2023 e il 2012 è stata Vercelli la provincia con il -32,7 per cento ad aver registrato la variazione negativa più elevata d’Italia. Seguono Rovigo con -31, Lucca con -30,8 e Teramo con il -30,6 per cento. Le realtà, invece, che hanno subito le flessioni più contenute sono state Napoli con il -8,1, Trieste con il -7,9 e, infine, Bolzano con il -6,1 per cento. In termini assoluti le province che hanno registrato le decurtazioni più importanti sono state Torino con -21.873, Milano con -21.383, Roma con -14.140, Brescia con -10.545, Verona con -10.267 e Bergamo con -10.237 (vedi Tab.1). Per quanto riguarda le regioni, infine, le flessioni più marcate in termini percentuali hanno interessato l’Abruzzo con il -29,2 per cento, le Marche con il -26,3 e il Piemonte con il -25,8. In valore assoluto, invece, le perdite di più significative hanno interessato la Lombardia con -60.412 unità, l’Emila Romagna con -46.696 e il Piemonte con -46.139. Il dato medio nazionale è stato pari al -22 per cento. Tra questi, il numero dei collaboratori familiari è di quasi 105mila unità (7,2 per cento del totale). —economiawebinfo@adnkronos.com (Web Info)