Il racconto del primario: “In 37 anni mai visto tanto dolore”
“Io sono in terapia intensiva da 37 anni e una cosa del genere non l’ho mai vista in vita mia. Ho vissuto qualche altra epidemia; ricordo l’H1N1, la Sars, ma una con un virus così forte, di una vastità tale da spargere infinito dolore e disperazione, non l’ho mai vista. Adesso tutti quelli che fanno i sapientoni, usando espressioni del tipo ‘lo sapevo’ o ‘l’avevo detto’, in realtà, come me, neanche loro si aspettavano una malattia di queste proporzioni”. E’ la testimonianza di Giorgio Berlot, docente di anestesia e Rianimazione all’Università di Trieste e primario del reparto di Anestesia e Rianimazione dell’spedale Cattinara del capoluogo friulano, raccontata a Interris.it. Quello di Berlot è stato un viaggio “straziante nel cuore dell’ospedale”, quel luogo dal quale troppe persone a causa del coronavirus “non sono mai tornate indietro: la terapia intensiva”.
“Rispetto ai colleghi di Milano e di tutta la Lombardia, noi abbiamo avuto circa due/tre settimane per prepararci e ciò ha comportato in primis una preparazione logistica, perché abbiamo avuto il tempo di far arrivare dispositivi e protezioni, ma soprattutto siamo riusciti a trasformare la terapia intensiva dell’ospedale in una terapia intensiva ‘presso negativa – ricostruisce il primario – cioè con l’aria che non può uscire e tutto quello che c’è dentro deve essere aspirato attraverso i filtri e buttato fuori. Grazie a questo sistema siamo riusciti ad avere la garanzia di non contaminare nessuno. L’aspetto più importante però è quello psicologico perché abbiamo avuto il tempo di prepararci tra medici ed infermieri con la possibilità di ‘addestrarci’ tutti quanti insieme”.
“Io i primi di marzo ho avvisato i miei colleghi che se fosse arrivato in ospedale qualche caso sospetto, mi avrebbero potuto chiamare a qualsiasi ora del giorno ed è stato così: un sabato sera mi hanno chiamato e con il cuore a mille mi sono immediatamente precipitato in ospedale – Mentre stavo arrivando mi hanno avvisato che non era un caso di Covid-19. Due sere dopo purtroppo è arrivato il primo vero caso di contagio da coronavirus. Quello che era accaduto due sere prima ci aveva psicologicamente preparato e così abbiamo affrontato l’inizio della vera emergenza”.
“Quando abbiamo cominciato a lavorare con questi pazienti, ho formato un gruppo che a sua volta aveva dei sottogruppi di due persone, ognuno dei quali si occupava di determinati aspetti come la ventilazione, gli antibiotici, la nutrizione eccetera – evidenzia Berlot – Due elementi per ogni gruppo perché ho sempre messo in conto che uno dei due potesse ammalarsi. Per fortuna ad oggi, il mio reparto, è uno dei pochi nell’ospedale di Trieste dove nessun medico si è ammalto. Ci comportiamo sempre come se tutti i pazienti che arrivano, fossero pazienti covid. Questo è un gioco di squadra, dal primario alla signore che raccoglie i camici sporchi, sono tutti fondamentali”.
“Quello che per me psicologicamente è stato molto pesante è stato entrare in contatto con i pazienti positivi per fare delle manovre solitamente banali, ma che in questa circostanza diventavano molto molto impegnative: la prima volta ho avuto paura, ho pensato ‘magari la prossima volta su questo lettino potrei esserci io”, ammette il primario.
“Per la prima volta noi medici dobbiamo temere il paziente anche per la nostra salute, perché possiamo essere contagiati noi per primi ed essere poi veicolo per le nostre famiglie, quindi bisogna stare molto attenti. Secondo aspetto molto duro da accettare per me e per tutti è stato il dover indossare la tuta protettiva per evitare contagi. Per tante ore al giorno siamo chiusi in queste tute impermeabili in cui si suda facilmente senza poter bere e senza poter andare in bagno. Non è facile – conclude – Ci si impiega 8/10 minuti per indossarla all’inizio, poi anche cinque minuti, ma mentre per vestirsi è facile, per svestirsi diventa più complicato e pericoloso, perché se non si presta molta attenzione è quella la volta in cui ci si potrebbe contaminare. Purtroppo troppi colleghi hanno perso la vita e non possiamo dimenticare di essere sempre scrupolosi per salvaguardare la nostra vita e di chi ci sta intorno”. (adnkronos)